RECENSIONI CINEMATOGRAFICHE 
film STRANIERI 

 
IL GLADIATORE
RISORSE UMANE
TUTTO SU MIA MADRE
PRIMA DELLA PIOGGIA
IO, ME E IRENE
MAGNOLIA
TI PRESENTO I MIEI


 
IL GLADIATORE Il gladiatore
   Movimento e tragedia. Azione, spettacolo, tifo da stadio e sentimento. "Il gladiatore" (USA, 2000) è un colossal da 100 milioni di dollari che segna il ritorno di un genere: quello dell’antica Roma, che sembrava tramontato per sempre. Il regista è il grande Ridley Scott (classe 1939, v. Blad runner) che dopo "Thelma & Louise" del 1991 sonnecchiava un po’. Tanti gli svarioni storici, le semplificazioni…e, certo, non si resta colpiti dalla  ricostruzione di Roma o, tantomeno, dall’uso delle balestre che all’epoca non esistevano. Però il film, se non si scava troppo e lo si osserva nel suo insieme, piace perché non è puro intrattenimento: smuove nello spettatore delle emozioni, fa riflettere sul potere, costringere a gettare uno sguardo al passato e questo suscita sempre curiosità e un pizzico di nostalgia.
  Bravo Harris nella parte di Marco Aurelio, con il suo volto rugoso, mobile e austero, superbo Joaquin Phoenix che interpreta l’odioso Commodo dallo sguardo torbido (usano colliri particolari?) che simboleggia la corruzione del potere. Ottima la divina Connie Nielsen che recita nei panni di Lucilla, sorella di Commodo. Protagonista del film, che dura 150 minuti, è il valoroso ed onesto generale Maximus che, caduto in disgrazia, diventa l’invincibile gladiatore, interpretato da Russel Crowe che recita bene e convince proprio per il suo aspetto semplice e umile, per l’eroismo che gli viene da dentro e non dalla misura dei pettorali.
   Sì, Spartacus e Ben Hur erano altra cosa, perché erano altri tempi, eppure Ridley Scott sa fondere i moderni effetti speciali con i vecchi effetti umani donandoci un film godibile, che non sorprende, ma certo non annoia.
 
maggio 2000
Alex Brando



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     RISORSE UMANE Risorse umane
   Opera prima di Laurent Cantet "Risorse umane" (Francia, 1999) è un film interessante. Duro e lucido come un documentario (vedi i rumori assordanti della fabbrica), semplice e severo. Girato in Normandia, in un’industria che costruisce pezzi per la Renault e la Peugeot, dove un padre e un figlio si incontrano. Lui, il vecchio, ci lavora da trent’anni. L’altro, giovane laureando, è lì per uno stage sulle trentacinque ore. Il padre è devoto e ligio ai padroni. Il figlio si trova a disagio per le sue origini e, allo stesso, per la vergogna che sente nell’essere figlio di un operaio. Quando lo studente universitario scopre le meschinità che stanno dietro al fare paternalistico e neoliberistico dei dirigenti della fabbrica si ribella in modo deciso e drammatico. Una ribellione d’istinto che via via sembra maturare, ma più da un punto di vista umano che politico e quando sta per tornare a Parigi a completare gli studi si domanda perché i suoi amici debbano restare lì, in quella fabbrica-inferno.
Solo il protagonista, un ottimo Jalil Lespert, è attore professionista. Gli altri, di cui alcuni molto bravi (il padre, per esempio, ma anche Arnoux la sindacalista CGT rompiscatole ma lungimirante), il regista se li è scelti per strada, più esattamente tra i disoccupati dell’ufficio di collocamento della zona dove stava girando il film.
   Laurent Cantet ha coraggio ed è un osservatore attento e acuto. Il suo film propone problemi, stimola la discussione, senza dare facili soluzioni. In Italia pellicole del genere non se ne girano più. Da noi sullo schermo non si vedono conflitti sul lavoro, non si parla delle fabbriche in crisi. Nel film di Cantet si discute della riduzione d’orario a 35 ore, ma il tema principale è il cambiamento sociale, lo scontro fra due generazioni, la crisi (la fine?) dell’ideologia operaia, delle battaglie sindacali e il difficile rapporto figli-genitori.
 
marzo 2000
Alex Brando

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TUTTO SU MIA MADRE Aldomovar
   "Tutto su mia madre” è il tredicesimo lavoro del grande regista spagnolo Pedro Almodòvar (classe 1951), da tempo già famoso per i suoi film eversivi che trattano con anticonformismo tematiche sessuali e pervasi da un ruvido sarcasmo sociale. Anche quella in esame è un’opera fortemente legata, come tutti i suoi precedenti lavori, al mondo femminile, al coraggio delle donne, delle madri di portare sempre e comunque avanti la vita. Una riflessione sulla procreazione e, insieme, sulla morte.
   Personaggi normali e realistici si scontrano con altri bizzarri, estremi, grotteschi. La cosa all’inizio sorprende e infastidisce, ma tali accostamenti vengono effettuati con tanta sublime maestria  che ad un certo punto tutto sembra avere una sua logica, una sua necessità. Questo accade perché anche i personaggi più eccentrici mantengono sempre una propria dignità, una forza indiscutibile che ce li fa ammirare e si avrebbe voglia di conoscerli e magari di farseli amici. 
   “Tutto su mia madre” ha un taglio secco nella narrazione, pur non mancando momenti di alta drammaticità e conservando quell’eccesso (v. i colori, gli arredi, i primi piani ecc.) espressionista e insieme barocco che è il marchio, la firma di tutti i lavori cinematografici di Almodòvar.
   Nel film si narra la storia di una madre, Manuela, che perde tragicamente il figlio e resta sola. E’ un’infermiera che vive a Madrid e si occupa, tra l’altro, anche di donazione degli organi umani. Il figlio, Esteban, le muore davanti investito da un’auto, sotto la pioggia, proprio nel giorno in cui assieme festeggiano il suo 17° compleanno. Il suo cuore continuerà a battere nel corpo di un uomo che solo grazie al trapianto potrà seguitare a vivere. Manuela, distrutta, lascia Madrid e raggiunge Barcellona alla ricerca del padre di Esteban, che ha lo stesso nome ma preferisce farsi chiamare Lola, visto che è un travestito. La donna incontrerà persone che la coinvolgeranno con i loro gravissimi problemi, come la suora incinta e sieropositiva. Tragedie altrui che la investono, ma le danno la forza di reagire, di tornare alla realtà riuscendo a farla sentire di nuovo viva ed utile. 
   Il regista si accosta con leggerezza, anche se in modo esplicito e spontaneo, ai temi più scottanti della nostra società: la droga, l’omosessualità, la malattia, la diversità. Il travestito Agrado in un monologo dice: “si può essere autentici solo quando si assomiglia a quello che si è sognato di essere nella vita.”: c’è, sotto la trama principale del film, una sottile analisi del rapporto tra realtà e finzione, della bugia detta per sopravvivere e della menzogna praticata per falsificare il mondo o ciò che realmente si sente dentro di sé. 

   Un film geniale per la sintesi narrativa. Struggente, come mai lo erano stati i precedenti lavori del regista spagnolo, per la sua intensa drammaticità. Imbevuto di pietà umana, di rispetto per la vita con tutto ciò che contiene (malattia, diversità, ipocrisie, stranezze ecc.). Molte le citazione ai classici del passato, con film nel film e scene teatrali (“Un tram chiamato desiderio”) ripetute con ossessione dove gli attori cambiano di continuo, ma le battute restano sempre le stesse.
   Ottimo il cast, con un elogio particolare a Cecilia Roth. Strana e bella la fotografia di Affonso Beato che privilegia i rossi.

Tutto su mia madre (1999) 
regia e sceneggiatura di Pedro Almodovar.
Interpreti principali: Cecilia Roth, Marisa Paredes, Penelope Cruz.

Premi:
1999 Migliore regista al festival di Cannes
2000 Oscar per migliore film straniero
2000 David di Donatello per migliore film straniero

giugno 2000
Alex Brando

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PRIMA DELLA PIOGGIA Prima della pioggia
   Il film nel 1994 è stato premiato a Venezia con il Leone d’oro e nel 1995 a Roma con il David speciale ma, nonostante i riconoscimenti, in Italia se ne è parlato poco ed è come scivolato via, non dico inosservato ma senza l’attenzione che avrebbe meritato.  "Prima della pioggia" ("Before the rain") segna l’esordio alla regia di Milcho Manchevski che è di origine macedone, ma da tempo vive negli USA. Va subito detto che è un gran bel film, drammatico e affascinante. Prima di tutto perché rende in modo preciso il senso dell’incombenza, dell’attesa della catastrofe e poi perché ha una struttura narrativa particolare. E’ diviso, infatti, in tre parti (Parole, Volti, Immagini) che non rispettano la scansione cronologica spiazzando lo spettatore e questo allo scopo di coinvolgerlo in modo più diretto nel dramma. 
   Nel film si svolge la breve parabola di un fotografo macedone, Alexander, che al culmine della propria carriera professionale decide di tornare a casa per sempre, e questo  dopo essere stato sconvolto dalla guerra bosniaca. L’uomo è assente da tanti anni e trova il piccolo paese radicalmente cambiato: le due comunità (albanese e macedone) presenti da secoli in quell’antica, povera e assolata terra e che fino a poco tempo prima vivevano pacificamente ora si fronteggiano con odio e sono pronte alla guerra, allo sterminio. Un insieme di esistenze che la violenza lacera in modo irreparabile, non c’è spazio per il dialogo né, tanto meno, per l’amore. Si cambia, ci si trasforma in esseri sanguinari e sarà lo stesso fotografo a farne le spese: quando proverà a salvare una ragazza albanese verrà sbrigativamente abbattuto da un suo parente:  “spara cugino, spara” saranno le sue ultime parole, mentre esplode un temporale e le gocce di pioggia bagnano il suo corpo.
   Un invito alla riflessione sull’indifferenza alla guerra di chi non la vive direttamente, ma anche su chi tenta disperatamente di capirla, di opporvisi.

   La fotografia è eccezionale, l’architettura narrativa complessa e solida. Suggestivo il contrasto tra la pace, il silenzio, la preghiera del convento e le pistole e i mitra che crepitano e non solo in Macedonia, ma in tutto il mondo, persino in un tranquillo ristorante londinese.
   Belle e appropriate le musiche del trio macedone “Anastasia”. 


 luglio 2000
Alex Brando

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           IO, ME E IRENE 

Carrey

Si chiama Charlie (Jim Carrey) il protagonista di questo film e fa il poliziotto a Rhode Island, un tipo preciso, insicuro e fin troppo buono. Si sposa con la bella Layla che assai presto, però, lo abbandona per un uomo violento: nero, nano ma ben dotato e parecchio intelligente. Tant’è che i due mettono al mondo tre figli (abbronzatissimi) che ovviamente mollano al tenero Charlie. Il poliziotto non reagisce, non si dispera e seguita la vita di sempre. Per lui quei bambini sono “i suoi figli”, delle chiacchiere della città non se ne cura affatto. 
I tre pargoletti, grazie alle cure di un padre premuroso e sempre disponibile, cresceranno benissimo e superalimentati, ma Charlie dentro di sé soffre tantissimo: non è riuscito a risanare il trauma, tenuto sempre nascosto, della fuga della moglie. Ora non ce la fa più, la rabbia esplode improvvisa in modo violento e il poliziotto buono, al quale nessuno  da mai retta, si trasforma in un pericoloso schizofrenico. 
Da questo punto in poi non avremo più soltanto Charlie ma anche il malvagio Hank. A volte (so che parrà strano) i due convivono dentro lo stesso corpo nello stesso momento (in ciò differenziandosi dal classico sdoppiamento di personalità alla Jekyll-Hyde) dando luogo alle scene più stravaganti, pazzesche ed esilaranti del film. Che non sarà un capolavoro, certo, ma lo si gode spensieratamente. 
La storia di Charlie arriverà al lieto fine (anche se ci rimetterà il pollice della mano destra) e avremo un poliziotto che vivrà “felice e contento”. Prima però dovrà affrontare peripezie e momenti pericolosi insieme alla dolce e sconvolta Irene (una brava René Zellweger), una ragazza che una banda di criminali vuole eliminare.
 Jim Carrey riesce a contorcere il corpo fino all’inverosimile e al proprio mobilissimo volto fa assumere decine di sembianze. Le sue potenzialità espressive sono enormi, sì, ma forse proprio per questo come attore è incombente e il suo istrionismo tende a soffocare gli altri protagonisti, un po’ come accade nei film con Eddie Murphy.
Il cinema dei fratelli Farrelly (Peter e Bobby) prosegue imperterrito per il suo allegro cammino ( v. Scemo & + Scemo, Tutti pazzi per Mary). La loro è una comicità sfrenata, tesa al demenziale, con un gergo esplicito, velocissimo, pieno di battutacce argute ma anche volgari. Con un cospicuo campionario di gag strappa-lacrime, ma anche di falli finti e creme ad alto scorrimento.
 Io, me e Irene
regia: Peter e Bobby Farrelly
interpreti principali: Jim Carrey e Renèe Zellweger
Usa, 2000
 ottobre 2000
Alex Brando

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     MAGNOLIA Tom Cruise

Il titolo del film prende il nome dalla strada dove si svolgono le nove storie (North Hollywood, dalle parti di Magnolia Boulevard e Magnolia Park, una delle zone residenziali più ricche d’america). Tanti i personaggi stereotipati (dodici), ognuno intaccato da episodi imprevedibili che hanno dato una piega particolare alla propria vita, ma poi altri episodi daranno un’ulteriore sterzata allo loro esistenza: la vita è fatta solo di casualità? Qui troviamo il Miliardario Morente che vuole vedere il figlio abbandonato, la Moglie Infedele pentita e innamorata del proprio uomo che sta morendo, il Bambino Sapientone che s’interroga sul mondo avido e per niente gentile degli adulti, il Poliziotto Altruista ma un po’ imbranato e debole, la Ragazza Perduta perché violentata dal padre, il Padre Indegno che maschera con un fare dolcissimo la propria aridità morale, l’Infermiere Devoto che vive la vita come al cinema. Una struttura narrativa molto simile a quella di alcuni film di Bob Altman (“America oggi”).
Parte in modo stranissimo,  Magnolia. C’è la sensazione di una enorme matassa da sbrigliare, poi i fili vengono fuori, si uniscono perfettamente, s’intrecciano dando luogo a un film forte, interessante, originale. Il ritmo musicale della colonna sonora segna il passo: nevrotico, sincopato, con improvvisi silenzi. Bravo davvero il giovane regista Paul Thomas Anderson (già “Boogie Nights”) a ricucire con estrema bravura scene e storie che ad un primo impatto sembravano lontane l’una dall’altra. Piano piano i contorni dei personaggi e delle nove storie si definiscono meglio e lo spettatore si cala nel film, comincia ad apprezzarne la complessità e il respiro che lo anima: un po’ barocco, un po’ spregiudicato. Tutto all’apparenza sembra bello, splendente, ma tutto può andare in putrefazione in una manciata di secondi, come il candido fiore della magnolia.
Tre ore piene e certo non ci si annoia. Anche grazie ad un cast grandioso, con un Tom Cruise nel ruolo di un fanatico predicatore super macho che però si sgretola al capezzale del padre morente che tanti anni prima lo aveva abbandonato insieme alla madre malata di tumore. Alla fine, da un cielo buio e carico di pioggia, prendono a piovere grosse rane che si spiaccicano sulle auto, sulle finestre, per strada. Una metafora singolare, a metà tra comicità e catastrofe, per segnalare il malessere di una società opulenta, arrivista, dai sentimenti sbiaditi, stanchi, ambigui. Persino crudeli. 

Magnolia
Regia e sceneggiatura
Paul Thomas Anderson
Scenografia
William Arnold, Mark Bridges
Fotografia
Dylan Tichenor
Cast
Jason Robards, Julienne Moore, Tom Cruise, Jeremy Blackman, Michael Bowen, William H. Macy, Philip Baker Hall, Melinda Dillon, Melora Walters, John C. Reilly, Philip Seymour Hoffman, Emmanule Johnson
Durata
188’
Usa, 1999

Riconoscimenti
- Orso d’Oro alla 50^ edizione del Festival di Berlino
- Tom Cruise vincitore nella sezione del Miglior attore non protagonista al 57^ edizione del Golden Globe
3 nomination Oscar 1999

dicembre 2000
Alex Brando

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     TI PRESENTO I MIEI
Ti presento i miei

 Il giovane infermiere  Greg Focker arriva a New York per conoscere i genitori della sua splendida ragazza Pam. Sembrerebbe tutto normale ma la famiglia Byrnes è un po’…speciale. Soprattutto il papà di Pam (un Robert De Niro convincente e spassoso) e quindi iniziano i problemi. Sempre più complicati. Greg deve subire umiliazioni, battute sul suo nome, la sua professione ecc., verrà persino sottoposto alla macchina della verità per verificare se mente. Nel frattempo vanno avanti i preparativi del matrimonio della sorella di Pam.
 Il regista Jay Roach si muove assai bene in velocità, pur avendo un tocco “domestico” che fa apparire una comicità fortemente surreale quasi “normale”, come se in quelle situazioni paradossali ci si potesse trovare chiunque. Tutto gira bene: sceneggiatura, interpretazioni e le musiche sono appropriate. Poi c’è la scintilla che fa di un buon film un ottimo film: Greg, il ragazzo timido buono che farebbe di tutto (per amore) pur di accattivarsi la simpatia della famiglia Byrnes ha un talento particolare a combinare casini, come se fosse una specie di vendetta inconscia. Così le cose si complicano ulteriormente fino al disastro finale…

 De Niro è grande, ma Ben Stiller (che già aveva sperimentato con successo il ruolo dell’innamorato timido in “Tutti pazzi per Mary”) con la sua bravura stralunata spesso gli ruba la scena.
 Ora, visto il successo del film, i produttori “associati” già pensano a mettere in cantiere un “sequel”. D’altronde i futuri consuoceri di Pam e Greg dovranno pur conoscersi!

Ti presento i miei (2001)

Regia di Jay Roach
Con Robert De Niro
Ben Stiller, Blythe Danner
Teri Polo
durata 107'
Usa, 2000
(uscito in Italia nel febbraio 2001)

febbraio 2001
Alex Brando

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ultimo aggiornamento 12 febbraio 2001

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